Guardare indietro. Guardarsi indietro per dire di quegli anni in
cui la nostra giovinezza era anche la giovinezza di un mondo che stava
diventando nuovo. Andavamo incontro ad ideali che inondavano le nostre
anime e i nostri occhi con sconfinata fiducia, quasi una fede, dal momento
che quel mondo possibile riuscivamo a vedere.
Quel mondo era già in atto e noi, pure, correvamo ad ascoltarlo
accucciati uno accanto all’altro negli angoli bui delle basiliche
romane, dove ci illuminava il fuoco delle armonie organali e delle polifonie
assolute. Incontravamo le passioni bachiane di Fernando Germani e di Giuseppe
Agostini che di anno in anno ci donavano un Bach saggio l’uno ed
esaltante l’altro. Ci si innamorava negli spazi astratti dell’Auditorium
Rai del Foro Italico della lucida tensione corale di Nino Antonellini e
Renata Cortiglione.
La nostra storia inizia nella Parigi di St. Germain des Prés in
un appartamento che emanava tutta la vitalità di una totale comunanza,
come in una serata di Madame Verdurin, ai nostri giorni Marion Canessa,
poetessa americana dal placante sorriso, nipote dell'attrice Marion
Davis. Lì trascorrevamo
le nostre soirées musicales con il regista Roberto Athayde,
il folle attore americano Jeoffroy de Carey, tessendo
con un piccolo gruppo le ardite geometrie di Palestrina e di Tomas Luis
de Victoria.
Ma frattanto, di lontano, Roma mi richiamava. E mi affererava al tramonto
riverberando dalle facciate ancora ottocentesche tutta la luce dei suoi
colori più caldi,
come dalla patina di certe tele. In quell’aura di cromatica
immobilità i
tempi erano, al contrario, intensissimi. La città era percorsa dalle
entusiastiche discussioni di Petroselli e Nicolini. E già allora
si andavano definendo i contorni di una questione che ancora oggi si propone
irrisolta: accanto alla promozione di eventi non dovevano essere trascurate
la formazione permanente e la pratica di una diffusa educazione musicale.
In quegli anni gli eventi si chiamavano John Cage e Phil Glass, che con
i poeti della beat generation invadevano di
avanguardia e di rivoluzione i sotteranei del parcheggio di Villa Borghese
per la sua inaugurazione.
È in una città così morbida e carnalmente felliniana,
eppure immersa in quel clima fosforico, che riprendo ad elaborare l’idea
accesa nel laboratorio di Parigi: quella di un coro.
Avevo sempre concepito la musica come coro, la musica come impegno individuale
che si fonde con quello degli altri. Il coro è una voce plurale, è l’anima
di anime che assumono un impegno di responsabilità verso la musica
e verso gli altri. È un percorso di Onestà e di Umiltà,
essenziali per affrontare gli studi grammaticali, sintattici e stilistici
non così accessibili
come a volte si è voluto far intendere. È solo attraverso questo
rigore che l’amatorialità trova
la sua felicità.
I primi nostri sforzi, le prime illusioni li affrontiamo con le opere di
Orazio Vecchi, il sorriso più ironico ed arguto del tardo rinascimento,
il nostro maître à penser. Sin dalle prime indagini
la musica sperimentata è improntata
ad un gioco polifonico colmo di ironia.
Nei nostri itinerari artistici raccogliamo via via i consensi della critica
e il riconoscimento che, pur muovendo da premesse amatoriali, abbiamo raggiunto
livelli esecutivi professionali. L’entusiasmo e la passione si moltiplicano
quando il mondo accademico ci invita a collaborare. Possiamo specchiare
le nostre esperienze nella purezza teorica e lo slancio filosofico di E.
Sforza, professore di Estetica alla “Sapienza”,
con il quale ravvisiamo un’emozionante comunanza di intenti sul potere
educativo della Bellezza. O stabilire una preziosa complicità nel
gioco pitagorico con il gruppo di teorici in occasione dell’inaugurazione
del Museo di Matematica dell’Università di Roma. Giancarlo
Menotti ci conduce a Spoleto e per sei anni partecipiamo al “Festival
dei Due Mondi”.
Nella nostra ricerca musicale si conferma anche l’esigenza di vivere
il presente in dialogo con i giovani compositori contemporanei, tra i quali
incontriamo Oliver Wehlmann e Claudio Anguillara.
Alessandro Anniballi